Inquinamento atmosferico e Covid: quale correlazione nello sviluppo della pandemia?

di Annalaura Carducci*

L’elevata diffusione della pandemia da Covid 19 in aree ad alto inquinamento atmosferico, ha indotto molti epidemiologi a cercare correlazioni fra la propagazione del virus e l’infezione da SARS Cov2 in termini di incidenza o mortalità. Gli studi epidemiologici sin qui condotti, grazie anche allo straordinario contributo offerto dai Biologi, hanno tuttavia utilizzato, per lo più, dati aggregati e non individuali, in grado cioè di rilevare soltanto “correlazioni ecologiche“. Per questo necessitano di ulteriori approfondimenti.

In ogni caso, dalle ipotesi fin qui formulate circa il possibile ruolo svolto dal particolato atmosferico, è emerso che quest’ultimo potrebbe (il condizionale è d’obbligo) aver “facilitato” oppure aggravato la malattia, mentre sembra molto improbabile che abbia potuto fungere anche da veicolo dell’infezione.

Quest’ultima ipotesi, fonte di grande equivoco e di disorientamento dell’opinione pubblica, è dovuta ad un approccio allo studio della trasmissione dell’infezione che non tiene conto degli aspetti biologici: il Sars-Cov2 infatti è un virus, che, anche se incapace di vita autonoma extracellulare, può interagire con i sistemi cellulari, replicarsi, mutare ed evolversi. Inoltre è un agente infettivo la cui fonte è l’uomo. Deve quindi passare ad altri esseri umani per diffondersi. In poche parole: per poter superare le difese dell’ospite deve essere infettante ed essere in “quantità” sufficiente.

Quindi, considerando il particolato atmosferico, anche ammessa la diffusione di virus nell’aria esterna da parte di soggetti infetti, ne deriva che le cariche virali presenti subiscono immediatamente una diluizione di molti ordini di grandezza (al contrario di quanto avviene al chiuso) e sono ridotte da fattori ambientali di inattivazione quali l’essiccamento e le radiazioni UV.

Infatti, nell’unico lavoro finora pubblicato sulla presenza di RNA virale in campioni di aria atmosferica, la rilevazione di acido nucleico mediante PCR, non ha significato che il virus fosse infettante, e la positività (a bassissimo titolo) ha riguardato campioni di circa 53 mc, a conferma della grande diluizione avvenuta nell’atmosfera.

Volendo riassumere: la trasmissione tramite particolato atmosferico a grandi distanze, è assai poco verosimile, mentre quella aerea ad opera di goccioline di Flügge di piccole dimensione e ben oltre la distanza di un metro in ambienti chiusi e spazi affollati, è ormai accettata anche dall’Organizzazione Mondiale della Sanità.

Cluster epidemici in vari ambienti (ristoranti, uffici, mezzi di trasporto, ecc.), in particolari situazioni (assembramenti, cerimonie religiose, scarsi ricambi d’aria, prove di coro, ecc.) ed in presenza di soggetti particolarmente contagiosi (i cosiddetti superdiffusori), hanno dunque dimostrato la presenza di questa diffusione, la cui probabilità è funzione della quantità stessa di virus immesso nell’aria, della sua stabilità alle condizioni ambientali, dell’esposizione dei soggetti suscettibili e della carica infettante (figura).

Tali concetti dovrebbero essere ben chiariti per motivare la popolazione all’adozione di comportamenti preventivi appropriati: l’uso delle mascherine al chiuso o comunque in luoghi affollati e l’areazione (o l’adeguata ventilazione) degli ambienti chiusi.

Per approfondimenti: Airborne Transmission of SARS-CoV-2: Proceedings of a Workshop in Brief (2020) – National Academies of Sciences Engeneering Medicine USA

*PO Igiene Generale e Applicata
Resp. Laboratorio Igiene e Virologia Ambientale
Dipartimento di Biologia
Università di Pisa