Roma, 16 giugno 2025 (Agenbio) – Uno studio internazionale ha mostrato per la prima volta una forte e diretta connessione tra l’aumento di batteri resistenti agli antibiotici e le procedure di disinfezione universale dei pazienti ricoverati in terapia intensiva. Il lavoro, pubblicato sulla rivista The Lancet Microbe, invita dunque a ridisegnare le linee guida finora adottate per l’utilizzo su larga scala dei disinfettanti.
La decolonizzazione universale è una procedura preventiva applicata sui pazienti quando vengono ricoverati in terapia intensiva: tutto il corpo viene disinfettato con clorexidina, un disinfettante ampiamente utilizzato anche per sanificare dispositivi medici e superfici ospedaliere, e viene applicato un trattamento nasale con un altro disinfettante chiamato mupirocina. Attualmente nel Regno si è diffuso anche un altro approccio più mirato che prevede la decolonizzazione solo dei pazienti risultati positivi allo stafilococco resistente alla meticillina (MRSA), un batterio resistente ad alcuni antibiotici che può provocare infezioni gravi.
Prendendo in considerazione due strutture sanitarie scozzesi che utilizzano questi due differenti approcci alla decolonizzazione, gli studiosi hanno quindi confrontato i livelli di infezione batterica e i tassi di resistenza agli antibiotici dei pazienti ricoverati in terapia intensiva nel corso di 13 anni. I risultati mostrano che nell’ospedale che praticava la decolonizzazione universale per tutti i pazienti erano più alte le infezioni causate dal superbatterio MRSE, lo stafilococco epidermidis resistente alla meticillina: un’infezione meno diffusa dell’MRSA, ma oggi in forte aumento e resistente a diversi tipi di antibiotici. (Agenbio) Etr 13.00