“Restauro e Biologia: una alleanza per nuove opportunità di ricerca e sviluppo”, l’articolo di “Cronache della Campania”

E che oggi parlare di di Biorestauro, Biopulitura, Bioconsolidamento non sconcerta più nessuno degli addetti ai lavori.
La strada fu tracciata già dai primi anni ’70, grazie alla intuizione lungimirante di due restauratori inglesi del Victoria and Albert Museum di Londra, i quali in anticipo sui tempi, che erano quelli della Chimica imperante su tutto e su tutti. Essi intuirono i vantaggi che potevano derivare dall’utilizzazione di particolari batteri precipuamente “adatti” ad alcune fasi di pulitura.
Ai precursori Inglesi seguirono alcuni biologi ricercatori americani che identificarono un ceppo batterico particolarmente idoneo alla “pulizia” del marmo, quello del “Desulfovibrio Vulgaris”.
E poi, negli anni successivi, si aprirono praterie di sperimentazione e ricerca per biologi e restauratori di opere d’arte, tant’è che oggi sono sorte ditte specializzate nel selezionare e “allevare” i ceppi batterici più disparati, i più idonei, a dare risposte alle esigenze particolari del restauro di alcun materiali che più di frequente hanno costituito nei secoli la “materia” dell’opera d’arte.
Oppure a consolidare le superfici di statue, monumenti e pareti murarie affrescate, decorate o scolpite.
Il nostro Belpaese, custode a volte malaccorto del più vasto patrimonio artistico del panorama mondiale, ma per questo costretto a giocare un ruolo da protagonista sulla scena mondiale della Conservazione e del Restauro d‘arte, ha fornito dapprima fondamentali contributi teoretici al “fare restauro”. Erano gli anni ’60 del secolo scorso e si imponeva la nouvelle vague degli studiosi e degli operatori del Restauro, usciti vincenti dalla immane sfida della ricostruzione postbellica.
Comprese le mille difficoltà della ricostruzione del patrimonio artistico scampato malconcio alla distruzione degli eventi bellici.
Soprattutto quando questi con i massicci bombardamenti alleati coinvolsero i centri urbani, toccando punte di spaventosa distruzione.
Ma, grazie al proprio immenso patrimonio storico e artistico, l’Italia rimessasi gia in piedi non poteva che rimanere un luogo di elezione per il Restauro e per la Ricerca che si sviluppava intorno ad esso.
Quello Italiano è un primato che resiste nel campo del Restauro, sia pure insidiato sui versanti prevalentemente tecnologici.
Così si è verificato pure nel caso del Biorestauro.
Negli anni 2000 infatti, precisamente nel 2004, dopo vari tentativi andati a buon fine per iniziativa privata, si è registrato il primo biorestauro italiano di iniziativa pubblica. Nel Camposanto Monumentale di Pisa si è messo mano agli affreschi che erano stati danneggiati da un bombardamento alleato nel 1944 e quindi restaurati nel dopoguerra, con ampio ricorso all’uso di colle animali (NB: generalmente colle di pelli di pesce e di coniglio, ma non solo).
Ma la cosa per certi aspetti più significativa e sorprendente – che volentieri sottolineiamo – è data dal fatto che il contributo scientifico alla soluzione delle problematiche del biorestauro fu fornito da microbiologi formatisi nelle università milanesi e in quelle… molisane.
In questi due poli infatti si è sviluppato il meglio della ricerca microbiologica per il Restauro e la Conservazione dei Beni Culturali, fino ad oggi.
L’ammaloramento degli affreschi pisani, indotto dal degrado biologico delle colle era costituito da rigonfiamenti, distacchi, lesioni e, ovviamente, da perdita e snaturamento dei colori.
La rimozione della colla con i metodi tradizionali non aveva però dato i risultati sperati. Invece il problema fu superato grazie a un batterio: lo Pseudomonas stutzeri.
Poco più di un anno dopo, sui marmi del Duomo di Milano, per rimuovere le brutte croste nere formatesi nei secoli, furono usati gruppi di microrganismi appartenenti alla famiglia delle Sulfovibrionaceae.
In pratica la stessa dei ceppi batterici utilizzati per la prima volta a Londra.
Ed oggi si continua di buona lena sulla strada della ricerca microbiologica applicata al Restauro, per nuove opportunità future, anche di lavoro.

 

Fonte: www.cronachedellacampania.it